«Bisogna ripensare i modelli organizzativi e di sostenibilità del servizio sanitario nazionale. Non è possibile che l’intero costo del Ssn gravi sulle spalle della classe media in un contesto economico di per sé già complesso e di estrema volatilità».
A dirlo è Antonio Graziano, responsabile Sanità del Forum italiano per l’export, commentando i dati della Settima regionalizzazione sul Bilancio del sistema previdenziale italiano a cura del Centro studi e ricerche itinerari previdenziali.
«Basta guardare i numeri per rendersi conto della insostenibilità della situazione oggi ma, ancor più, nel prossimo futuro. Il dossier rivela che cinque milioni di lavoratori, con redditi annui superiori ai 35mila euro, sostengono il peso dell’intero welfare state. E parliamo di fasce di reddito (lordo) in cui rientra gran parte della nostra popolazione, dagli insegnanti alle forze dell’ordine, dai contabili agli impiegati. Considerati oggi, dalle imperscrutabili decisioni dell’algoritmo della finanza pubblica, come i ‘nuovi ricchi’. Una situazione evidentemente paradossale, considerate l’inflazione galoppante e l’erosione del potere d’acquisto, che si riverbera in negativo sull’assetto stesso della nostra società».
«E che cosa viene offerto ai lavoratori in cambio del sostegno offerto al mantenimento del Ssn? Una sanità pubblica insufficiente dal punto di vista organizzativo, malgrado gli encomiabili sacrifici fatti dagli operatori sanitari che lavorano in condizioni spesso disperate, che non assicura alcun tipo di tutela a chi, con le proprie tasse e, quindi, con il frutto del proprio impegno, mantiene in piedi l’intera architettura. E penso agli episodi di cronaca, di cui apprendiamo dai giornali, che riguardano strutture come il Cardarelli di Napoli, oppure il Niguarda di Milano o l’ospedale Umberto I di Roma.
Che cosa fare dunque? Immaginare uno sdoppiamento del servizio sanitario valorizzando, come risorsa, la sanità convenzionata a integrazione e sostegno complementare di quella pubblica, che è e deve restare gratuita, universale e accogliente. Alla sanità convenzionata potrebbero dunque rivolgersi esclusivamente i lavoratori dipendenti o i liberi professionisti, iscritti all’Inps o all’Enpam o all’Enpaf o a qualsiasi altra Cassa professionale, sia della gestione principale che di quella separata, oltre alle loro famiglie. In tal modo si alleggerirebbe il peso sulle strutture pubbliche mettendole in grado di erogare servizi più velocemente e di maggiore qualità. I presidi ospedalieri pubblici accoglierebbero, invece, tutti i cittadini e i residenti in Italia, anche quelli senza contratto di lavoro, e quanti, per ragioni solidaristiche e umanitarie, hanno bisogno di assistenza e cure che è sempre doveroso garantire (operazioni oncologiche, interventi chirurgici d’urgenza…) purché in possesso di codice fiscale italiano».
«In questo modo, si creerebbero due bacini di riferimento con la sanità convenzionata puntello efficiente del welfare di uno Stato che ambisce a crescere e che vede nella propria classe produttrice l’elemento dinamico e caratterizzante del proprio percorso di sviluppo, che sì mantiene il Ssn ma lo fa con la consapevolezza di poter avere, nel momento del bisogno, una risposta adeguata alle esigenze. E con quella pubblica che mantiene inalterate le sue caratteristiche di universalità, equità e solidarietà».
«Peraltro, questa suddivisione, che non intaccherebbe in alcun modo i diritti dei fruitori della sanità pubblica, che anzi ne uscirebbero rafforzati, innescherebbe anche un circuito virtuoso sul fronte occupazionale. Spingendo quanti sono fuori dal mercato del lavoro regolamentato a chiedere garanzie contrattuali per poter accedere alla sanità convenzionata sia come dipendenti sia come autonomi. E spezzando così anche il meccanismo infernale del lavoro nero e delle morti sul lavoro che oggi rappresentano, in Italia, una vera e propria emergenza».
«Sullo sfondo restano però i numeri del dossier che impongono una riflessione anche sulla necessità di una più incisiva lotta all’evasione fiscale non certo aumentando le tasse a chi già le paga, ma allargando anche di pochi punti percentuali la platea dei contribuenti. Secondo il Centro studi e ricerche itinerari previdenziali, il 14% dei lavoratori, con redditi lordi superiori a 35mila euro, versa i due terzi dell’Irpef, ovvero dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. La sola Lombardia, con 10 milioni di abitanti, paga 40 miliardi di Irpef all’anno: in pratica più di tutto il Sud, che conta il doppio di residenti, e del Centro che pure registra 11 milioni di abitanti. Di fronte a queste percentuali – conclude Graziano – è impossibile immaginare anche solo continuare con gli stessi strumenti, la stessa mentalità e la stessa organizzazione del welfare state attuale».